Era «la Negra» della «Nueva cancion» latinoamericana, quella nata tra le corde della chitarra di Violeta Parra, nutrita dalla poesia di Pablo Neruda, e fatta conoscere nel resto del mondo da staffette clandestine sfuggite al controllo dei regimi fascisti di Augusto Pinochet e Alfonso Videla. Mercedes Sosa, 74 anni quando si è spenta in ospedale dopo una lunga malattia, era una di questi tedofori della «Nueva Cancion». La sua voce profonda e intrisa di nostalgia con cui interpretava la canzoni di Silvio Rodriguez, Milton Nascimiento e Pablo Milanes, le canzoni che lei stessa aveva creato, combinando i temi dell'amore e quelli sociali -cantando le speranze degli ultimi tra gli ultimi- ne hanno fatto un'icona. Nata e cresciuta nella provincia argentina di Tucuman, nel nord, di etnia Aymara, Sosa fu costretta ad un autoesilio negli anni della dittatura dei generali, dal 1976 al 1973. «Trasmise al mondo intero la nostra richiesta di rispetto dei diritti umani», ha detto il cantante Victor Heredia. Caduta la dittatura in Argentina, Mercedes ha continuato a cantare la vita dei poveri. «Non avrei mai pensato di cantare per vivere», disse un giorno, ma erano strapiene le sale in cui cantava ballate come «Gracias a la vida», «Todo cambia» o «Oh, que sera, que sera»: dalla Carnegie Hall a New York fino al Colosseo a Roma, nel 2002. Nel 1994 cantò per il Papa nella Cappella Sistina. Vollero collaborare con lei Luciano Pavarotti, Sting, Joan Baez, Caetano Veloso, Joan Manuel Serrat, Shakira.



 

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